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Franz Liszt e la sua musica nel cinema, Lucca, LIM 2014, XXIV-520 pp.

Recensione di Roberto Calabretto, in Quaderni dell'Istituto Liszt, 15, 2015, pp.210-212

Un’importante novità editoriale viene ad arricchire la bibliografia degli studi dedicati alla musica per film. Luigi Verdi, per la Libreria Musicale Italiana, pubblica un volume dedicato a Franz Liszt e la sua musica nel cinema esplorando le pellicole che hanno utilizzato le sue composizioni, secondo diverse modalità e atteggiamenti, e quelle dedicate alla sua biografia. Liszt, infatti, come precisa subito l'autore nella sua introduzione, «oltre che per la musica è stato famoso per la sua vita romantica, ricca di colpi di scena e di avventure», motivo per cui la sua personalità ha ispirato il cinema con particolare intensità sin a partire dall’avvento del sonoro per giungere fino ai nostri giorni. La sua vita e la sua musica hanno così portato molti registi a far comparire il nome di Liszt nei credits cinematografici di moltissime e talvolta famose pellicole. Verdi le ha praticamente raccolte tutte con incredibile perizia all’interno di un seguito di paragrafi che raggruppano quelle che lo vedono protagonista oppure personaggio secondario, quelle in cui la sua musica è utilizzata nel cinema oppure nella televisione, e anche nei cartoni animati. Da questo punto di vista, questo volume rappresenta, al momento, un unicum nella letteratura cinematografica. Nel corso degli anni, infatti, molto si è parlato della presenza di Bach nel cinema di Pier Paolo Pasolini, di Andrej Tarkovskij e di Ingmar Bergman, oppure del ricchissimo caleidoscopio di repertori musicali che affollano le pellicole di Stanley Kubrick dando luogo a situazioni audiovisive magistrali. Affrontare però la questione dalla parte della musica, ossia come il corpus di opere di un compositore e la sua biografia siano entrati a far parte dell’universo della settima arte, non ci risulta sia mai stato fatto, perlomeno in maniera così sistematica. Liszt, del resto, ben presto agli occhi della critica era apparso come un musicista dalla forte vocazione cinematografica, «precursore dell’Arte cinemusicale che presto si [sarebbe sostituita] al melodramma, genere ormai sorpassato e obsoleto per la staticità dell’azione, il convenzionalismo delle scene, e l’infinita banalità delle parole», come ricordava in maniera molto ingenua Roberto Falciai nel lontano 1927 nelle pagine del Cinematografo che, in quello stesso anno, parlava addirittura di una possibile “Visione cinemusicale” della Rapsodia Ungherese n. 2, non a caso repertorio lisztiano maggiormente sfruttato nell’universo della settima arte e dei cartoni animati. Anni prima, nel 1918, Luigi Mancinelli, nella programmatica dichiarazione alla proiezione del 7 giugno 1918 all’Augusteo di Frate Sole di Mario Corsi, di cui aveva scritto la partitura, senza esitazione era giunto ad asserire a chiare lettere che «se la Battaglia degli Unni e Mazeppa di Liszt, Morte e Trasfigurazione, Don Giovanni di Strauss, Le Rouet d’Omphale e Danse Macabre di Saint-Säens, fossero eseguiti colla visione cinematografica, l’idea dell’autore risulterebbe più chiara e il pubblico ne riceverebbe un’impressione completamente favorevole», anticipando un problema molto dibattuto negli anni seguenti dai teorici della settima arte. I motivi per una trattazione su Liszt e il cinema sono pertanto molti e fondati e ben ha fatto Verdi a raccogliere questa sfida. Il suo lavoro è imponente e, nel corso di 500 pagine, raccoglie informazioni su più di 300 film che hanno utilizzato composizioni lisztiane all’interno delle loro colonne sonore e su altri 50 circa che lo hanno visto protagonista oppure personaggio secondario. Cifre, queste, che ben mettono in risalto che Liszt è stato uno dei compositori maggiormente rappresentati sullo schermo, a conferma della sua popolarità. La ricerca di Verdi è scrupolosissima e, oltre a censire tutte queste pellicole - la cui reperibilità dev’essere stata molto faticosa - ne offre una descrizione particolareggiata sulla provenienza delle opere e sugli interpreti, talvolta riportando cronometrie e stralci dalla sceneggiatura.
 Consapevole dei rischi insiti in ogni operazione cinematografica che voglia porre al centro del proprio racconto la vita di un compositore, per cui spesso la realtà è sostituita da episodi liberamente inventati dal regista, Verdi giustamente opera dei continui raffronti con le fonti musicologiche per “correggere” inesattezze, incongruenze oppure mistificazioni che molte affollano disordinatamente simili pellicole. Situazioni che in tutti i biopic, quelli su Giuseppe Verdi e Giacomo Puccini in primis, abbondano, ma che si rivelano ugualmente di estremo interesse per verificare la maniera con cui gli eventi biografici e la musica di un maestro siano stati accolti dall’orizzonte di attesa del pubblico. Allo stesso tempo è interessante vedere se questi film possono comunque essere giustificati e se, nella libera fantasia con cui il racconto è articolato, sia comunque garantita una fedeltà all’essenza della musica e del compositore di cui si parla. Premessa che ci permette di valutare i tanti film romanzati dedicati a questo compositore - ma anche in quelli su Robert Schumann troviamo situazioni analoghe - fino a giungere al celeberrimo e quanto mai discusso Lisztomania di Ken Russel in cui Liszt è «biondo atletico, estroverso e istrionico» mentre Wagner si presenta «vestito da marinaretto e aggressivo» (p. 63).
Nell’aprire la seconda parte del volume, Franz Liszt: musica e immagine, Verdi riporta un grafico che ben mette in risalto come la musica di Liszt sia stata «molto utilizzata dall’avvento del sonoro fino agli anni Cinquanta del Novecento» per poi andare incontro a un notevole ridimensionamento nei due decenni seguenti e ad una ripresa di popolarità a partire dagli anni Novanta (p. 183). Dati che ben si riflettono nella storia del commento sonoro cinematografico che, dopo la grande stagione dei “compositori artigiani” che scrivevano delle partiture ex novo, a partire dalla metà degli anni Novanta ha sempre più accolto materiali di repertorio sapientemente riadattati e finalizzati alle esigenze del grande schermo. Inevitabile allora il ricorso alle pagine lisztiane che sembrano «assecondare le più svariate tipologie narrative, dal suono “grandioso” al suono “intimo”, dal suono “infernale” al suono “celestiale”» (p. 183). Senza dimenticare come la natura della colonna sonora cinematografica ben si adatta alla morfologia di questa musica e proprio di quei repertori che Verdi giustamente mette in risalto nel corso delle pagine del proprio volume. Interessante sarà in futuro ragionare proprio su questo problema, sulla “cinematograficità” della musica di Liszt che, come giustamente sosteneva Mancinelli, avrebbe senz’altro potuto essere un compositore per lo schermo.


 

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